Due mesi storici, senza dubbio, e il perché è nata l’idea di fare un quaderno per farsi raccontare la quarantena dai Cronisti Toscani.
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foto di copertina: Nicola Baronti
Ognuno ha avuto la propria quarantena. Ognuno ha affrontato i due mesi storici di marzo e aprile del 2020 nel modo che ha potuto. Due mesi paradossali, quasi distopici, se pensiamo che per una settantina di giorni abbiamo abbattuto la nostra vita sociale a vantaggio di quella on line. Si è avverato quello che impaurisce molti noi: contattare il mondo rimanendo in casa senza rapporti con le altre persone. Così abbiamo comprato su internet più di quanto non abbiamo fatto a Natale, per esempio; e abbiamo visto e sentito gli amici sulle piattaforme che abbiamo scoperto per fare le videochiamate, chi per lavoro, chi per diletto.
Siamo usciti davvero solo per necessità, cosa che abbiamo nostro malgrado scoperto.
Tutto è cominciato il 10 di marzo. La sera prima è partito uno dei famosi decreti e io che quella stessa sera tornavo al ‘Vespucci’ dall’estero mi sono improvvisamente visto catapultato in un mondo nuovo, alienante, diverso da quello che avevo lasciato solo tre giorni prima.
Prima il controllo della temperatura all’uscita dell’aeroporto, poi il doversi muovere solo per strettissima necessità, quindi l’impossibilità di fare qualsiasi cosa di cui non c’era bisogno. Chi avrebbe mai pensato che scendere in strada, andare a prendere in caffè al bar, a comprare le sigarette o il giornale sarebbero state azioni da non poter fare o da giustificare? Pensieri banali triti e ritriti che chissà quante volte abbiamo fatto in queto periodo, ma fermatevi a pensare alla forza di questa cosa.
Scherzando, in casa e con gli amici, ho sempre detto che sembrava di stare in uno di quei paesaggi urbani nordcoreani che si possono vedere cercando su Google: strade deserte, nessuno in giro, silenzio tetro nelle ore dove si solito le auto sono in moto per portare a casa chi le guida.
E poi ci siamo informati tanto, vuoi perché eravamo in casa abbiamo avuto più tempo a disposizione per farlo, vuoi perché è stato talmente necessario che non farlo sarebbe stato ancor più alienante di quanto già non lo fosse la situazione. Il fatto che il centro dell’epidemia sia stata una delle regioni dal più forte impatto mediatico ha reso la narrazione ancora più tragica.
E poi la miriade di opinioni, che ci hanno letteralmente bombardato, a ogni livello, a cascata, partendo dall’esperto, quello vero (il virologo, l’epidemiologo, l’infettivologo), fino a quello “da tastiera”, capace di trarre conclusioni complottistiche stando seduto a casa.
E poi i bambini. Loro hanno sofferto questa quarantena, ne possiamo stare sicuri. E se non l’hanno dato a vedere, in un modo o nell’altro rimarranno segnati da questa cosa. Per questo, almeno a loro, abbiamo il dovere di dire la verità: che per colpa del coronavirus non hanno potuto andare a scuola, a giocare con i vicini, a fare una passeggiata al parco, a trovare i nonni, a scegliere il regalo per il compleanno (se è caduto in quel periodo). Ma non hanno battuto ciglio, magari qualche piagnisteo: a loro la verità non ha fatto paura.
Infine chi lavora nella sanità. Un insieme di categorie che ha subito rifiutato l’appellativo di “eroe” per una cosa che fa ogni giorno da anni e continuerà fino alla pensione, e che permette di mandare avanti le proprie famiglie. Un po’ come se definissimo eroi gli ingegneri e i muratori che hanno progettato e costruito un edificio rimasto in piedi dopo un brutto terremoto.
Fra tutti questi pensieri è nato il quattordicesimo quaderno dell’Archivio di Vinci nel Cuore: “chissà cos’hanno fatto o visto i giornalisti che hanno dato vita ai premi che l’associazione ha segnato nel corso degli anni“, mi sono chiesto. Così l’ho chiesto direttamente a loro e mi hanno risposto, facendomi riflettere ancor di più su quanto abbiamo vissuto e su cosa tutto questo possa aver generato. Ma non ho risposte immediate, a riguardo.
Christian Santini