“La scoperta d’un nuovo piatto è più rilevante per l’umanità che la scoperta d’una nuova stella”, parola di Leonardo, nell’articolo di Tamara Morelli.
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Leonardo è stato “cucinato” in tutte le salse possibili, soprattutto dopo l’ultimo anno leonardiano, festeggiato a distanza di cinque secoli dalla morte con sontuosi pranzi rinascimentali a lui dedicati e ispirati alla sua passione enogastronomica.
In verità forse si dovrebbe fare più attenzione a distinguere la “cucina” del Genio, ovvero la sua effettiva capacità nella preparazione e cottura del cibo, dalla “mensa”, da quel suo gusto raffinato nella preparazione di tutto quello che sta sopra la tavola e intorno alla cucina, macchinari compresi. Sicuramente Leonardo era un buongustaio al punto tale da avere indicato tra i suoi eredi testamentari Battista de Villanis, la cuoca che aveva portato con sé da Milano fino ad Amboise. La cucina, come ha sottolineato uno scrittore toscano, che abbiamo l’onore di avere tra Li omini boni vinciani, Stefano Massini , nel suo “Dizionario Inesistente”, era per lui un’inclinazione naturale al pari della pittura. Tutto ciò ha fatto soprattutto la fortuna dei designer e pubblicitari dei nostri tempi, che ci hanno costruito sopra racconti fantasiosi e attribuito al Genio di Vinci frasi mai dette, che pur si trovano ormai in tutti i testi, come la nota “Et però credo che molta felicità sia agli homini che nascono dove si trovano i vini boni”, frutto di un’abile campagna pubblicitaria di qualche decennio fa di una nota cantina di Vinci. A dimostrazione che la realtà virtuale ormai può superare la realtà e la ricerca storica. Tamara Morelli si avventura con questo suo piccolo saggio nel convivio leonardesco facendo un po’ di chiarezza, smascherando qualche altra fake news storica, con un tono tuttavia sempre leggero e appassionato, tra le certezze e alcune interessanti presunzioni storiche.
(Nota a cura di Nicola Baronti).
Tanto si dice e tanto si scrive su Leonardo da Vinci, genio universale senza tempo. Chi lo vuole vegetariano perché amante dell’olio e delle erbe delle colline del Montalbano, chi goloso di dolci fino da ragazzino, chi amante della gastronomia tanto da gestire la locanda delle Tre Rane a Firenze.
Senza dubbio ha vissuto e prestato la sua opera con ingegno e talento alla corte di Ludovico il Moro. Si presentò nel 1482 con una lettera al Signore di Milano in cui si dichiarava architetto, costruttore di bombarde per spaventare il nemico, di congegni idraulici, e voleva rendere onore al capostipite della nobile casata degli Sforza facendo un cavallo in bronzo che non sarà mai realizzato.
I diciotto anni trascorsi alla corte di Milano furono i più fecondi per l’artista. Si impegnò in vari progetti e non disdegnò di diventare maestro cerimoniere e regista di scenografie per feste e banchetti tenuti al castello sforzesco. Nella seconda metà del Quattrocento ogni avvenimento saliente della vita dei Signori veniva celebrato con magnificenza per palesare potenza e nobiltà. L’organizzazione della “festa del Paradiso” per onorare il matrimonio tra Gian Galeazzo, nipote del Moro, e Isabella d’Aragona fu affidata a Leonardo. Conviene ricordare l’importanza esercitata dalla musica che accompagnò la rappresentazione e la passione nutrita da Leonardo per questa arte. Si ricorda a questo proposito la lira che lui stesso regalò a Ludovico il Moro al suo arrivo a Milano e la documentazione pervenutaci attesta l’impegno e la passione con cui affrontò l’opera di regista e scenografo.
Ma Leonardo è andato oltre; attratto dall’apparato scenico per imbandire la tavola del suo signore, si occupò anche della bellezza del convivio, che su di lui esercitava fascino. Infatti, s’impegnò in numerose e fantastiche invenzioni tese ad agevolare i cuochi dell’epoca che dovevano realizzare sontuosi banchetti con ricche portate. Molte sono le congetture dei coniugi inglesi Shelagh e Jonathan Routh in “Note di cucina di Leonardo da Vinci”, che vogliono il Genio amante del dolce, fino ad esserne avido, chef della taverna le Tre Lumache e poi gestore insieme a Botticelli della locanda Le Tre Rane, ma il fantomatico Codice Romanoff, a cui essi fanno riferimento, non è stato mai ritrovato all’Hermitage di Leningrado.
È invece veritiero il fatto che Leonardo abbia vissuto presso la corte milanese e abbia avuto esperienza dei fasti con cui si svolgevano feste e banchetti. Leonardo lasciò per testamento tutti i suoi manoscritti, appunti e disegni all’allievo Francesco Melzi, che a sua volta lasciò al figlio Orazio.
L’immensa produzione ha subito alterne vicende, tra cui furti, smarrimenti, vendite come quella destinata allo spagnolo Pompeo Leoni, che ne acquistò gran parte. I materiali più attinenti alla gastronomia appaiono nei Manoscritti di Francia, ma soprattutto nel Codice Atlantico. In quest’ultimo troviamo disegni che mostrano macchine e invenzioni riguardanti compiti di cucina e l’allestimento dei banchetti. Troviamo il disegno di un acciarino per accendere il fuoco, di pompe per far giungere acqua al castello e in cucina, di girarrosti meccanici e forni speciali. Leonardo pensò anche ai contadini e progettò una macchina per spremere le olive e un’altra complessa e imponente per macinare il grano. Nel Codice Atlantico troviamo consigli che possiamo definire attuali sulla conservazione della salute, basati sulla moderazione nell’assumere cibi.
“Se voi star sano, osserva questa norma: non mangiare senza voglia, e cena leve, mastica bene, e quel che in te riceve sia ben cotto e di semplice forma… El vin sia temprato, poco e spesso, non for di pasto né a stomaco voto…”.
Che fosse un osservatore meticoloso della tavola e dei cerimoniali si può dedurre dai suoi dipinti, in particolare da quello dell’Ultima cena. In questo dipinto, la raffigurazione della tavola imbandita è dettagliata e assolutamente realistica. La tovaglia presenta pieghe piatte, strisce decorative e i nodi agli angoli. Gli alimenti posti sulla tavola riflettono i gusti del tempo. Il pane ha la forma di michette, secondo l’uso milanese. Tre i piatti di portata presenti sulla tavola: uno contiene dei pesci, un altro lascia intravedere tranci di anguilla accompagnati da fette di arancia o melagrana, il terzo resti di frutta.
Pietro Alamanni, ambasciatore degli Sforza, nella sua relazione – sperando sia veritiera – scrive che “Mastro Leonardo da qualche tempo ha abbandonato la scultura e la geometria per risolvere i problemi delle tovaglie del Sire Lodovico, la cui sporcizia lo assilla“. Infatti aveva assistito a un episodio increscioso, allorché l’ospite d’onore, un prelato invitato a pranzo dal duca, si era pulito la faccia con le foglie di lattuga prelevate dall’insalatiera colma di uova, caviale e cipolline. Leonardo escogitò una soluzione fantasiosa e semplice allo stesso tempo: per risolvere quel problema e riportare ordine e pulizia bastava mettere a disposizione di ogni commensale una tovaglietta individuale: era nato così il tovagliolo. A dire il vero, già nella Roma antica si faceva uso di panni per pulirsi le mani, uso per lungo tempo dimenticato. Il nuovo tovagliolo troverà la giusta adozione solo nel Settecento. Nella parte finale del rocambolesco Codice Romanoff appare un ricettario vinciano di cui ignoriamo la fonte, i cui contenuti appaiono decisamente inventati. Alcune ricette sono davvero bizzarre, come la zuppa di cavallo alle mandorle, o il gabbiano in pastello.
Nella sua indole il Genio era un gran risparmiatore, al punto che perfino i lembi dei fogli dei suoi quaderni gli servivano per gli appunti, come per fare i banali conti di casa. Possiamo affermare che consumava cibi semplici, che prediligeva l’olio delle sue colline o quello di noci, secondo l’uso dei più poveri. “Il vino è bono“, annotava nei suoi taccuini, segnalando che “l’acqua avanza in tavola“. Provvedeva lui stesso a comprarlo e negli appunti figura il vino della Valtellina e uno di Mantova. Leonardo amava anche la vernaccia di San Gimignano, vino apprezzato pure da Ludovico il Moro, che ne commissionò ben duecento fiaschi in occasione delle nozze del nipote Gian Galeazzo con Isabella d’Aragona.
La distillazione delle bevande fu un altro interesse del versatile scienziato. Così approfondì i meccanismi di produzione e progettò tre tipi di alambicchi. Distillò la famosa acqua di rose, bevanda tipicamente turca, consumata molto in estate. Nel Codice Atlantico spiega come prepararla e come usarla. Ci tramanda gli ingredienti: “zucchero, acqua, rosa, limone e acqua fresca, calati [cioè filtrati] in tela bianca“. A quel tempo l’acqua di rosa era servita nei convivi per profumare le mani prima, durante e dopo il pasto. Amasse poco o molto il cibo, Leonardo ne stimava la presenza formale ed elaborava il processo esecutivo e di cottura, che sono basilari per chi esercita la funzione del cucinare. Questo suo interesse pare lo abbia portato ad affermare che “la scoperta di un nuovo piatto è più rilevante per l’umanità che la scoperta di una nuova stella“.
Tamara Morelli