Accogliamo un breve brano di Adua Biagioli Spadi su questo periodo che stiamo affrontando nell’insicurezza e nella richiesta intima di speranza futura.
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Adua Biagioli Spadi è Maestra d’arte e operatrice Culturale; è presente in numerose pubblicazioni antologiche di premi letterari nazionali e internazionali.
Socia di importanti accademie letterarie è sul sito Italian Poetry. A Giugno 2015 pubblica l’Opera Prima “L’Alba dei papaveri” – Poesie d’amore e identità.
A Luglio 2017 lo stralcio di una poesia tratta da “L’Alba dei papaveri” viene scolpito su stele in pietra serena e ubicato in località San Pellegrino di Sambuca Pistoiese per la valorizzazione della cultura e della montagna (Progetto culturale Parole di Pietra).
A marzo 2018 esce la seconda raccolta poetica “Il tratto dell’estensione”.
A maggio 2018 vince il Primo Premio Assoluto al Concorso Letterario Internazionale Ambiart di Milano,con il racconto “A Paola”.
Dal 2018 entra a far parte del comitato di giuria per il Premio letterario Nazionale “Poesie in corso” di Livorno e del Premio Letterario Nazionale “Don Cinotti” di Quarrata.
Sue poesie sono state tradotte in lingua romena, in lingua francese, in lingua spagnola.
Da Gennaio 2019 fa parte del Poetry Sound Libriry Map dei poeti per la diffusione e la promozione del patrimonio culturale della poesia.
Potete seguire la sua attività sul suo sito ufficiale, aduabiagioli.it, e sui suoi profili social, seguendola su Facebook, Instagram o Twitter.
Vivere di questi tempi , vivere, nonostante tutto. Raccontare di essere sulla brina del mondo. Di essere stati. Un tempo divenuto pigro, immenso, lungo. Sono lucenti le foglie della siepe e riluce il vespro quando cade il sole, nell’invisibilità delle cose ferme. Sono mosse da un vento sottile e amoroso, le foglie della pianta innominata sotto una primavera attesa di più, e più straordinariamente misteriosa. Mi invade con la fluidità di uno sguardo impudico, impietoso, di una crudele bellezza priva di pensiero. E brillano, brillano come lucciole impazzite le regine silenziose che accompagnano lo sguardo che si fa clemente verso la chiesa vuota, smembrata, abitata da un dolore strano che raccoglie, che ricorderò mi dico, per sempre. Il camposanto riuscirà anche a parlare, un giorno, nutrirà le poesie del pianto e della gioia che tornerà tardi, mutata, strappata alle nuvole e alle pietre. E la tua voce è così piccola ora, nel’ascolto. Così piccola e anomala, un poco di cielo e di seme dentro, quasi fosse la tisana incompiuta del nostro ritrovarsi certo, dopo. Niente predice il poi, né se domani pioverà. E questo non sapere rende il tempo dell’incertezza e ci appartiene, così come non appartiene più a nessuno. Mi chiedo cosa mi stia mancando, di più, e cosa mi mancherà, sicura che la stessa domanda apparterrà non soltanto a me.
E spero, Dio se spero, che ciò che mi attenderà là fuori, non sia soltanto quell’abbraccio agognato o sperperato dal mondo come quasi fosse il modo di un fare usuale, quel ritornello unico che mi acquieta, quell’effimero avvicinare i nostri corpi, l’uno all’altro, per dire che ci siamo accostati ancora, dopo la cortina densa della nebbia. Ma trema qualcosa di me, come accade alle finestre che chiudo ogni sera finita, nella spicciolata della stagione matura di sole. Trema, per quello che so di ritrovare e che intuisco, mentre annodo fra i capelli un fiore nato dalla gioia della vita; trema perché i morti ci avranno reso un buco grande sul volto del cielo, mentre i vivi che noi siamo, lo restituiremo ancora, un po’ colpevoli, inavvertitamente, sul volto della terra.
Adua Biagioli Spadi