Leonardo Mazzantini, gregario vincente

L’intervista al gregario di Francesco Moser, realizzata in occasione della pubblicazione del 13° quaderno dell’Archivio di Vinci nel Cuore.

Nell’ufficio di Leonardo Mazzantini c’è una foto riprodotta in bianco e nero e stampata sull’argento. Ritrae l’arrivo dell’edizione 1980 del Gran Premio dell’Industria e del Commercio di Prato, gara nella quale Mazzantini arrivò secondo battuto in volata da Silvano Contini. Nella foto, il lombardo è senza mani sul manubrio intento a esultare con le braccia in alto sul traguardo: ha un viso che esprime felicità e incredulità al tempo stesso.
Dietro c’è Mazzantini. Leonardo non guarda il vincitore, ma fissa davanti a sé e forse pensa al tipo di gara che ha fatto, condotta sempre fra i cinque del plotoncino di fuga, deluso di non aver avuto lo spunto che ha consegnato il primo posto a Contini.
«Ogni tanto guardo quella foto e mi ricordo che nella vita bisogna fare sempre di meglio».
Leonardo Mazzantini è questo: caparbio e deciso nelle sue due vite da ciclista prima e da assicuratore adesso, umile e pieno di rispetto per chi vince, ma anche per chi lavora sodo e sa fare sacrifici.

In carriera è stato un validissimo gregario, soprattutto di Francesco Moser, con il quale, oltre a condividere le stanze d’albergo per quattro anni di carriera, ha condiviso anche vittorie e gare, tenendolo anche a bada, perché Mazzantini fu scelto – e lui stesso scelse Moser e le sue squadre – perché si era dimostrato un tipo saggio, che sapeva usare la testa a dovere e nei momenti giusti.

La vita sportiva di Mazzantini con il campione trentino comincia negli anni Ottanta, quando dopo aver iniziato fra i professionisti, Leonardo si fa notare nella Zonca-Santini, con la quale arriva terzo al Giro di Svizzera nel 1979. La base del podio gli frutta offerte dai tre team di grido dell’epoca, ovvero quelli di Moser, Saronni e Battaglin. Lui sceglie Moser, seguendo Valdemaro Bartolozzi e Giorgio Vannucchi, i ds che assemblavano le squadre a Francesco Moser, squadre nelle quali Mazzantini si sentiva di poter dimostrare il proprio valore nonostante il gregariato, cosa che con Saronni e Battaglin non gli sarebbe valso la carriera che ha portato avanti fino al ritiro, nemmeno trentenne.
Saggio Leonardo. E caparbio. Come quando a sedici anni si rompe per la prima il femore destro e decide di continuare a correre dopo essere rimasto fermo per oltre un anno (anche perché il dottore che lo operò lo convinse che sarebbe andato più forte dopo l’intervento che lo costrinse a stare con un chiodo fissato al ginocchio).
Caparbio come quando da dilettante e studente delle superiori andava la mattina a scuola e il pomeriggio a fare 150 chilometri tutti i giorni per allenarsi.
Caparbio come quando decise di cambiare vita e passare dai dilettanti ai professionisti, perché se da dilettante rinunciò al Giro del Messico mentre era entrato in Nazionale, fra i pro non sarebbe stato costretto a fare quelle rinunce e avrebbe seguito la sua grande passione. La cosa funzionò e il primo anno da professionista, che passò quasi interamente in ritiro fra Livorno e Crespina, fu memorabile per la mole di risultati conseguiti da gennaio a ottobre.

E quindi Moser. «Era uno che affrontava le persone così come affrontava le corse. Era schietto, non tradiva le proprie origini contadine e io sapevo come prenderlo». Con Moser, Mazzantini corre sei volte il Giro, fino al proprio ritiro nell’83, a soli 29 anni. «Non avevo più voglia di sacrificarmi per tre quarti dell’anno, in più avevo una moglie a casa. E poi mi hanno offerto questo lavoro – l’assicuratore – che mi piacque da subito perché mi ci sentivo a mio agio».
La vita ciclistica di Leonardo Mazzantini è stata simile a quella di assicuratore: «La considerazione e l’autorevolezza te li devi guadagnare sul campo, perché è il sacrificio quello che conta, insieme al rispetto per chi lavora». Sono tutti insegnamenti che Leonardo ha tratto dalla sua carriera ciclistica e che auspica trovino anche i giovani nel fare sport, nel sacrificarsi per raggiungere traguardi e risultati, con umiltà e voglia di darsi da fare per arrivare a braccia alzate a fine corsa, così come è inutile lamentarsi, «perché c’è sempre qualcuno che sta peggio e allora non è giusto».
Insegnamenti questi, che ha ereditato anche dal padre, carpentiere, che “già sapeva come andava a finire”.

Spassoso il ritratto che Leonardo traccia del babbo. «Lui le chiamava le arbagìe. È chi si dà le arie ed è tutto fumo e niente arrosto. Questo – tiene in mano un miscelatore – l’avevo comprato per regolare la temperatura della doccia in casa. Era super tecnologico, ma un giorno l’acqua calda non arrivò più e nessuno ci capì niente, né il caldaista, né l’idraulico. Babbo intese subito che il sistema era troppo sofisticato per funzionare a dovere, ma gli altri ci impiegarono due settimane dopo essersi rimpallati a vicenda le responsabilità. Nell’altro bagno il miscelatore classico, quello a mano, continua a funzionare da allora, senza averlo mai cambiato».
Insegnamenti che Leonardo tiene sempre a mente, come la foto in ufficio di lui che arriva secondo, per ricordarsi sempre che bisogna fare meglio, prima di tutto di se stessi, per arrivare al traguardo.


Christian Santini
l’intervista integrale è stata pubblicata su “Storie su due ruote. Dalla bicicletta di Leonardo al Giro d’Italia“, Archivio di Vinci nel Cuore, agosto 2019